Con il termine “blue economy” si fa riferimento ad un modello di sviluppo economico sostenibile, orientato a rivoluzionare l’attuale sistema produttivo, azzerando le emissioni inquinanti, attraverso l’innovazione tecnologica.

L’idea è stata sviluppata nel 2010 dall’economista belga Gunter Pauli, che si è ispirato al concetto di biomimesi: attraverso lo studio e l’imitazione dei processi biologici e biomeccanici, è possibile immaginare una rivoluzione delle tecniche di produzione che favorisca un utilizzo più sostenibile delle risorse naturali.

La blue economy si propone come evoluzione della green economy: quest’ultima cerca di limitare la quantità di emissioni, mentre la prima punta a eliminarle del tutto. La blue economy, così come si intuisce dalla stessa denominazione, si rivolge in particolare al mondo dei mari e degli oceani e alle attività economiche ad esso associate, che rivestono un ruolo primario nella lotta al cambiamento climatico.

La necessità di preservare il mare

Salvaguardare mare e oceani sta diventando un obiettivo sempre più pressante. Non a caso, tra i 17 SDG (Sustainable Development Goals), vale a dire gli obiettivi di sviluppo sostenibile delineati dalle Nazioni Unite nell’Agenda 2030 nell’ambito della lotta ai cambiamenti climatici, due sono legati proprio all’acqua.

La recente crisi idrica globale e la lotta continua all’inquinamento delle coste, poi, hanno posto ancora di più l’attenzione su queste tematiche. Il WWF, l’organizzazione ambientalista internazionale dedicata alla conservazione della natura, ha recentemente lanciato l’allarme: ogni anno vengono scaricate nei mari e negli oceani circa 8 milioni di tonnellate di plastica, con conseguenze disastrose per la sopravvivenza degli ecosistemi marini. Mentre, da solo, l’oceano assorbe quasi il 30% delle nostre emissioni di CO2.

Una situazione drammatica, che ha già portato alle prime pesanti conseguenze. Ad oggi, circa la metà delle barriere coralline è scomparsa. E sono molte le regioni chiave a livello globale che hanno ampiamente superato la soglia considerata tollerabile di inquinamento: dal Mar Mediterraneo all’est della Cina, dal Mar Giallo al circolo polare Artico. Per il prossimo futuro, poi, lo scenario si prospetta ancora più fosco: secondo i ricercatori, la concentrazione di microplastiche aumenterà di 50 volte entro il 2100.

Guardando all’Italia, poi, si legge nel nuovo “Dossier Coste, il profilo fragile dell’Italia” pubblicato lo scorso giugno da WWF Italia, sono proprio le zone costiere del nostro paese ad avere subito, nel corso degli ultimi 50 anni, le maggiori trasformazioni. Il turismo, esploso nel dopoguerra, ha portato alla nascita di resort e alberghi proprio a ridosso delle spiagge. A questo si aggiunge anche l’intenso sviluppo industriale che ha contribuito a degradare e trasformare il 51% del panorama costiero. Tanto che, spiegano i ricercatori, solo 1.860 km (il 23% del totale) di tratti lineari del litorale possono essere considerati ancora “naturali”.

Il mercato

Ecco allora che per salvaguardare la natura e l’ecosistema marino sta aumentando il numero di aziende specializzate. C’è, per esempio, chi sta iniziando a pensare a come limitare lo sfruttamento delle risorse idriche in chiave ecologica, gestendo o riutilizzando i rifiuti di plastica e occupandosi della qualità delle acque. E chi, invece, sta studiando soluzioni innovative per salvaguardare mari e oceani. Mentre le società legate al settore dei trasporti marittimi, del turismo e della pesca hanno iniziato ad adottare in misura maggiore pratiche sostenibili e rispettose dell’ambiente.

Tutti questi settori che costituiscono l’economia del mare, secondo le stime più recenti, già oggi hanno un valore cumulato che si aggira intorno ai 24 trilioni di dollari a livello globale. Ma è un dato destinato a crescere esponenzialmente nel prossimo futuro. Nel solo Vecchio Continente, questo comparto dà lavoro a 4,45 milioni di persone per 667,2 miliardi di euro di fatturato, secondo il “Blue Economy Report” pubblicato nel 2022 dalla Commissione Europea. Anche l’Italia è ben posizionata. I dati contenuti nel X Rapporto Nazionale realizzato dal Centro Studi Tagliacarne per la Camera di Commercio di Latina e Frosinone con la promozione di Informare, infatti, confermano che il nostro paese si colloca al 3° posto per valore aggiunto tra quelli europei. In particolare, l’economia del mare incide per il 3,4% sul Pil nazionale, considerando solo la produzione diretta. Ma analizzando nel complesso tutta la filiera si supera il 9%, per un indotto complessivo di 136 miliardi di euro di valore.

Una sfida (anche) finanziaria

Aiutare le aziende del settore a crescere e a sviluppare soluzioni ecosostenibili per tutelare gli ambienti marini è dunque una delle priorità del nostro tempo. E anche l’industria finanziaria ha scelto di contribuire e fare la sua parte. Si tratta di soluzioni che rientrano nella sfera dei cosiddetti “fondi tematici ad impatto”.
E sono una novità piuttosto recente: i primi prodotti di questo tipo hanno iniziato a comparire sul mercato europeo negli ultimi anni, sulla spinta degli intensi sforzi svolti a livello comunitario in questo settore. E sono cresciuti come diretta conseguenza del Green Deal europeo: il patto siglato dalla Commissione che include una serie di iniziative che hanno l'obiettivo comune di raggiungere la neutralità climatica nel continente europeo entro il 2050.

Le strategie sottostanti a questi fondi sono focalizzate proprio su tematiche relative all’acqua: salute di mari e oceani, oltre che incentrate sulla preservazione delle risorse idriche nel nostro pianeta. Basti pensare che, Euronext, la società che gestisce la borsa valori pan-europea, compresa quella di Milano, ha dichiarato in un recente report che sono attualmente 162 le società legate ai settori della Blue Economy quotate sui suoi mercati. Per un aumento del 30% rispetto al 2015.

Chi volesse approfondire questa tematica, può rivolgersi ad uno dei nostri consulenti per ricevere informazioni.

 

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